Sanità


spina-bifidaNuovi tasselli si aggiungono alla conoscenza delle basi genetiche della spina bifida, una delle più frequenti malformazioni neonatali. Uno studio finanziato da Telethon e coordinato da Valeria Capra, dell’Istituto Gaslini di Genova, ha identificato 10 nuove mutazioni genetiche legate alla patologia. Il lavoro, svolto in collaborazione con l’Università di Montreal, l’Instituto di Biosciences e Technology di Houston e l’Università dell’Iowa, è pubblicato sulla rivista internazionale Human Mutation.

La spina bifida, detta anche mielomeningocele, è una malformazione del sistema nervoso centrale che fa parte del gruppo dei difetti del tubo neurale. Alla base di queste malformazioni, che in Italia colpiscono circa un neonato su 1500, c’è un’imperfetta saldatura del midollo spinale nel feto durante le prime settimane dal concepimento. In particolare la spina bifida è dovuta ad una mancata chiusura della cute e degli archi posteriori delle vertebre, con una conseguente esposizione all’esterno del tessuto nervoso spinale e delle meningi: nel nascituro questo provocherà paralisi degli arti inferiori, incontinenza della vescica, ritardo psicomotorio e deformità scheletriche. Attualmente non esiste alcuna cura.

Le cause della spina bifida possono essere di natura materno-ambientale o genetica. Al momento, l’unico gene noto come responsabile di questa malformazione si chiama VANGL1 e contiene le informazioni per una proteina fondamentale per lo sviluppo del sistema nervoso durante la vita embrionale: quando è difettoso, il tubo neurale non assume infatti la forma corretta.

Analizzando una popolazione di 773 individui italiani e americani affetti da difetti del tubo neurale, i ricercatori hanno individuato dieci nuove mutazioni localizzate in VANGL1. Metà di queste mutazioni si trovano in zone del gene importanti dal punto di vista funzionale. Il prossimo passo sarà quello di utilizzare un modello animale, quale lo zebrafish (pesce zebra), per capire il ruolo di queste mutazioni nell’insorgenza della spina bifida.

Nel frattempo le informazioni emerse da questo studio potranno dare un contributo importante alla diagnosi della patologia. Al momento, infatti, lo screening diagnostico per la spina bifida viene effettuato mediante amniocentesi o ecografia prenatale. La speranza e’ di poter mettere a punto un test ad alta precisione che possa individuare le diverse mutazioni nel gene VANGL1.

Francesca Ceradini

obama1 La Geron Corporation, un’azienda statunitense specializzata in biotecnologie, ha annunciato di aver ricevuto l’autorizzazione dalla Fda, l’ente federale per il controllo dei farmaci, a compiere la prima  sperimentazione clinica con cellule staminali embrionali per la cura di lesioni al midollo spinale.

Gli Stati Uniti sono il Paese in cui, nel 1998, le ricerche di James Thomson hanno portato alla scoperta delle staminali embrionali. Poi venne il dibattito infinito sulle questioni etiche che questo tipo di ricerca comporta e il blocco dei finanziamenti pubblici per volere dell’amministrazione Bush. Adesso arriva il via libera alle prove cliniche che coincide con l’arrivo alla Casa Bianca del nuovo presidente Barack Obama. Il neopresidente stesso, nel suo discorso inaugurale, ha ribadito di voler restituire alla scienza il posto che si merita.

L’obiettivo è quello di iniettare cellule staminali, prelevate da embrioni, nel midollo spinale di volontari paralizzati nella speranza che queste possano riparare la guaina di mielina che protegge i nervi e restituire così alle fibre nervose la capacità di trasmettere i segnali. Si spera anche che fattori di crescita, prodotti da queste cellule, possano contemporaneamente stimolare i nervi a rigenerarsi.

La prima fase della sperimentazione verrà condotta su un piccolo numero di pazienti con lesioni spinali gravi e dovrà verificare la sicurezza della terapia. I test prenderanno il via entro l’estate e riguarderanno otto o dieci pazienti. Le cellule saranno iniettate nella zona del midollo lesionata fra i sette e i 14 giorni dopo il trauma. Finora sull’uomo sono state sperimentate soltanto cellule staminali adulte che sono meno versatili rispetto a quelle embrionali. La sperimentazione potrebbero anche comportare il rischio di un’eccessiva proliferazione delle cellule con la conseguente insorgenza di un tumore. Il punto fondamentale è capire come preparare le cellule e quali istruzioni debbano ricevere perché facciano il loro lavoro al meglio e senza danni.

La decisione della Fda segna un’inversione di rotta nell’attitudine del governo Usa sulla controversa questione dell’utilizzo delle cellule staminali embrionali e apre un nuovo capitolo nelle terapie mediche. Ciò lascia anche presagire che il presidente Obama si prepari ad allentare le restrizioni imposte dal presidente Bush, che ostacolavano i progressi scientifici in questo campo.

di Francesca Ceradini

staminaliApprovata dalle autorità britanniche una procedura per verificare la tossicità dell’inserimento di cellule fetali in aree cerebrali lese.

Nel Regno Unito partirà a breve una sperimentazione sull’essere umano che prevede l’inserimento di cellule staminali adulte nel cervello di persone che abbiano subito un ictus. I trial clinici dureranno due anni e coinvolgeranno dodici pazienti. Le cellule staminali saranno derivate da cellule prelevate da feti abortiti, capaci di differenziarsi in neuroni, e impiantate direttamente nelle aree cerebrali maggiormente danneggiate.

Lo scopo principale è verificare eventuali reazioni negative all’intervento, con la speranza di indicare la strada verso una terapia che aiuti a ristabilire la funzionalità cerebrale dopo l’ictus. A ricevere l’autorizzazione dalla Medicines and Healthcare Products Regulatory Agency inglese è stata la ReNeuron, un’azienda privata, che condurrà lo studio nel Southern General Hospital di Glasgow.

Il primo trial, che comprenderà quattro persone nella seconda metà di quest’anno, prevede l’inserimento di due milioni di cellule, mentre con i successivi si arriverà fino a venti milioni. Per gli scienziati sarà impossibile osservare il comportamento delle singole cellule, ma i pazienti saranno regolarmente sottoposti a scansioni per verificare l’attività cerebrale e controllare che non si formino tumori.

La stessa sperimentazione è stata sottoposta due anni fa al vaglio della Food and Drug Administration (Fda) statunitense, ma ancora non è stata autorizzata. Per ora, quindi, solo il Regno Unito potrà cominciare lo studio di fase uno, per la verifica di non tossicità della procedura. La speranza è di ottenere in futuro la rigenerazione del tessuto cerebrale leso dall’ictus.

Fonte: Galileo

In arrivo 13 milioni di euro in più al Fondo per il credito per i nuovi nati, un fondo dedicato alle famiglie con figli affetti da malattie rare.

E’ quanto prevede un emendamento al decreto anti-crisi presentato alla Camera da Laura Ravetto (Pdl) che ha avuto parere favorevole da parte del governo.

In  particolare i nuovi fondi dovranno essere utilizzati ”per la corresponsione di contributi in conto interessi in favore delle famiglie di nuovi nati o bambini adottati nei medesimi anni che siano portatori di malattie rare”.

 

Con il termine “malattie rare” si indicano gravi malattie che, per la loro rarità (meno di 5 casi su 10.000 abitanti), sono poco conosciute e spesso prive di terapie specifiche.

La stima dell’Eurordis è di un numero complessivo che si aggira intorno alle 6 mila patologie, quasi tutte senza cura, il 75% delle quali colpisce i bambini. Le malattie coinvolte sono rare, ma non per questo poche. L’insieme di queste malattie rappresenta il 10% delle malattie umane conosciute e riguarda più di 1 milione di pazienti nel nostro Paese e circa 25 milioni in Europa.

Il problema fondamentale è soprattutto collegato alla loro rarità, da questa caratteristica deriva la scarsa disponibilità di conoscenze scientifiche e mediche. Di queste malattie, infatti, oltre ai nomi e agli effetti, quasi sempre invalidanti, si sa solamente che nel 90% dei casi l’origine è genetica, ma si è ancora lontani dal poterle diagnosticare, prevenire e curare. Pochi pazienti vuol dire anche pochi “clienti”, non abbastanza perché l’industria farmaceutica possa concentrarsi sulla ricerca dei farmaci cosiddetti “orfani”. Per avere un’idea delle risorse necessarie basta pensare che l’immissione di un farmaco sul mercato è preceduta in media da 7-12 anni di ricerca e da un investimento di circa 800 milioni di euro. Il risultato è che oggi esistono medicinali che curano non più di 350 malattie rare, lasciandone migliaia ancora senza rimedio.

vedi il video informativo per bambini

Francesca Ceradini

mioblastiDai laboratori della Sapienza una prospettiva innovativa per la comprensione e la cura della malattia degenerativa del sistema nervoso.

Un recente studio sperimentale, coordinato da Antonio Musarò del Dipartimento di istologia ed embriologia medica della Sapienza Università di Roma, offre nuove speranze nella lotta alla SLA, la sclerosi laterale amiotrofica che colpisce progressivamente i motoneuroni, le cellule nervose che controllano il movimento dei muscoli.

A oggi l’ipotesi più accreditata sulla causa della degenerazione dei motoneuroni è la mutazione del gene che produce la superossido dismutasi (enzima SOD1), un potente antiossidante che pulisce le cellule dai radicali liberi. Ma quando l’enzima subisce una mutazione, diventa tossico e provoca la degenerazione delle cellule. Recenti studi sperimentali hanno avanzato il dubbio che i motoneuroni non siano i soli bersagli primari della mutazione SOD1, suggerendo che gli scarsi risultati ottenuti con la terapia convenzionale dipendano da una incompleta conoscenza delle basi molecolari e cellulari della malattia stessa.

Il progetto di ricerca della Sapienza ha puntato a dimostrare l’ipotesi che il muscolo scheletrico sia un bersaglio primario dell’effetto tossico del gene mutato SOD1, a prescindere dalla degenerazione dei motoneuroni. Come è illustrato in un articolo pubblicato su Cell Metabolism, nel corso della sperimentazione i ricercatori hanno generato un topo modificato nel quale gli effetti del gene mutato si producono solo nei confronti dei muscoli volontari. Nella cavia si è osservata la progressiva atrofia dei muscoli e la successiva comparsa degli altri sintomi della malattia, senza una apparente degenerazione dei motoneuroni, contrariamente all’ipotesi dominante che li vuole bersaglio primario della SLA.

Questo risultato non solo aggiunge un nuovo tassello alla comprensione dei meccanismi alla base della SLA, ma apre nuove prospettive per disegnare strategie terapeutiche più appropriate. Occorre infati cominciare a considerare la SLA come una malattia multisistemica, che non riguarda soltanto i motoneuroni, ma che può coinvolgere direttamente anche altri tessuti (come la glia e il muscolo, appunto). È in questa nuova ottica, dunque, che bisogna cominciare a sviluppare approcci terapeutici combinati, che aggrediscano la malattia da più fronti.

Fonte: Le Scienze

airc

7 NOVEMBRE 2008

SOTTO L’ALTO PATRONATO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

L’associazione italiana per la ricerca sul cancro dedica quest’anno la Giornata per la ricerca alla crescita dei giovani ricercatori, che con le loro idee e il loro entusiasmo rappresentano il futuro della ricerca nel nostro Paese. L’ incontro di esperienza ed innovazione in menti giovani e dinamiche è alla base dell’avanzamento della ricerca scientifica.

Negli ultimi anni, la ricerca sul cancro si  sta orientando verso le cosiddette “cure intelligenti”, così chiamate in quanto basate su una farmacologia che mira con estrema precisione all’obiettivo riducendo il danno alle aree tissutali circostanti di un tumore. Le “cure intelligenti” sono, quindi, il risultato della integrazione di cure tradizionali con nuovi criteri terapeutici. I giovani ricercatori rappresentano i punti di crescita e di forza della ricerca in questa direzione.

Come ogni anno, la Giornata del 7 novembre prossimo si propone di informare e sensibilizzare il grande pubblico sui progressi compiuti dalla ricerca e sui suoi prossimi obiettivi. Iniziative televisive, radiofoniche ed incontri nelle piazze italiane sono previsti nei giorni dal 7 al 9 novembre per dare insieme ai giovani ricercatori più forza per andare lontano.

Facciamo come Al Gore. Creiamo (cerchiamo di creare) un grande movimento popolare per lo sviluppo della ricerca di base in campo biomedico, proprio come l’ex vicepresidente degli Stati Uniti ha fatto per la lotta ai cambiamenti climatici. Lo propongono in un editoriale firmato venerdì scorso sulla rivista Science due influenti ricercatori americani, Jim Wells e Mary Woolley.

L’analisi dei due editorialisti è rigorosa. I problemi, globali e locali, della salute sono importanti altrettanto quanto i problemi dell’ambiente: la globalizzazione sta accelerando la diffusione dell’Aids e di altre malattie infettive, antiche e nuove. Gli stili di vita delle classi medie stanno determinando la propagazione dell’obesità, del diabete, del cancro, delle malattie cardiovascolari. Gli strumenti scientifici, sociali e politici messi in campo per affrontare e cercare di risolvere questi e altri problemi sanitari non sono sufficienti. C’è bisogno di maggiori conoscenze scientifiche, di maggiore impegno politico, di maggiore consapevolezza sociale.

Gli scienziati che si sentono impegnati ad affrontarli e risolverli devono prendere atto che quei problemi non hanno soluzione, se la soluzione è affidata alle sole forze di mercato. Infatti i grandi problemi sanitari esistono, malgrado la biomedicina sia il principale settore di investimento in ricerca e sviluppo, soprattutto in America. Gli scienziati devono prendere atto anche che come categoria non hanno la forza per imporre l’emergenza sanitaria in testa all’agenda politica. Serve, dunque, una politica delle alleanze. E qual è il più forte alleato possibile in questo contesto se non l’opinione pubblica? Stimoliamo, dunque, la nascita di un grande movimento popolare per affermare l’urgenza di questi problemi e la necessità di affrontarli anche attraverso lo sviluppo della scienza di base.

La proposta di alleanza tra scienziati preoccupati e cittadini non è una mera provocazione intellettuale, ma una plastica espressione dei nuovi rapporti che si stanno intrecciando tra scienza e società. Un’evocazione di quella «cittadinanza scientifica» attiva che costituisce parte sempre più decisiva della cittadinanza tout court, da cui dipendono sia la soluzione dei principali problemi della società sia la qualità della sua democrazia. È significativo che in questo periodo sia la rivista della più grande associazione di scienziati del mondo (l’AAAS degli Stati Uniti) a raccogliere questa sfida e a farla propria.

di Pietro Greco

Fonte: L’Unità

Con  quasi trecentomila nuovi casi all’anno nel mondo, il carcinoma del cavo orale è, per incidenza, tra tutti i tumori maligni, all’ottavo posto negli uomini e all’undicesimo nelle donne. Se diagnosticato in fase precoce, la sopravvivenza a 5 anni è del 90%, ma se, come avviene nella maggior parte dei casi, viene rilevato negli stadi finali, scende sotto il 20%.

 

Per portare avanti un’efficace – ed economica – opera di prevenzione, gli Odontoiatri italiani sono scesi in campo contro questa patologia, e hanno varato il Progetto di prevenzione Primaria e secondaria del Carcinoma Orale.

I primi risultati del Progetto sono stati presentati il 26 e 27 settembre a giardini Naxos (Messina), nel corso dell’Assemblea nazionale dei Presidenti della Commissione Albo Odontoiatri (CAO).

 

Il progetto vuole costituire una rete di dentisti sentinella – spiega il Presidente CAO nazionale, Giuseppe Renzoche funga da interfaccia tra i professionisti e il territorio, per una prevenzione primaria, rivolta cioè al cittadino, e secondaria, ad opera dell’Odontoiatra che riconosce precocemente la lesione e rimanda il paziente allo specialista oncologo”.

 

Nonostante sia facilmente prevenibile, con l’evitare alcuni semplici fattori di rischio – i principali sono l’alcool e il fumo – e semplicemente diagnosticabile con l’analisi clinica e istopatologica della lesione, questo tipo di tumore, se non affrontato in tempo, è difficilmente curabile.

“L’unica terapia è la chirurgia, che è efficace solo in fase iniziale – conferma Lorenzo Lo Muzio, presidente della SIPMO, la Società Italiana di Patologia e Medicina Orale, che collabora al progetto. – La chemio e la radioterapia, anche se fortemente invasive ed invalidanti, non danno risposta, e non prevengono l’insorgere di metastasi, recidive, o l’insorgenza di un secondo carcinoma in un’altra zona della bocca. La sopravvivenza totale a cinque anni è, infatti, inferiore al 50%”.

“Se la lesione è asportata al primo stadio, la sopravvivenza del paziente arriva, invece, sino a percentuali del 90% – rassicura Sandro Pelo, presidente della SIOCMF, la Società Italiana di Odontostomatologia e Chirurgia Maxillo-facciale.- È però importante la tempestività dell’intervento: si tratta di lesioni che non evolvono in anni, ma nell’arco di poche settimane”.

E ancora più rilevante è la prevenzione primaria, cioè l’evitare i principali fattori di rischio.

“Fumare un pacchetto di sigarette al giorno aumenta di cinque volte il rischio per il carcinoma orale, bere quotidianamente un bicchierino (50 ml) di superalcolici fa crescere il rischio di quindici volte – avverte Lo Muzio. – Ma l’associazione di fumo e alcool può determinare un incremento del rischio sino a cento volte”.

L’incidenza nelle varie zone geografiche è, infatti, molto legata agli stili di vita. In Italia, si registrano 10000 nuovi casi l’anno, tantissimi se pensiamo che un tumore molto più conosciuto come il cancro della cervice uterina conta in un anno “solo” 3500 nuovi casi. L’incidenza del carcinoma orale è più elevata nelle regioni settentrionali, in particolare nel Nord Est, nelle valli alpine e nelle aree industrializzate, in relazione ad un maggior consumo di alcool e di tabacco. Per la stessa ragione, l’incidenza è tre volte più alta nell’uomo (8,44 nuovi casi su centomila persone) che nella donna (2,22), e interessa prevalentemente i soggetti dai 50 ai 70 anni. Ma negli ultimi anni, è aumentato di molto il numero delle donne colpite, in relazione forse ad una maggior abitudine femminile al fumo, e sta aumentando drammaticamente quello dei soggetti intorno ai quarant’anni. La mortalità in Italia è di 3000 persone l’anno.

Oltre a fumo e alcool, altri fattori di rischio sono l’infezione da Papilloma Virus – anche se i dati sono controversi – una dieta povera di frutta e verdura, fattori immunitari, genetici, e traumi dalla mucosa. Il carcinoma del cavo orale si manifesta soprattutto sulla lingua, sotto la lingua stessa e nella zona vicino alla gola, ma può insorgere in qualsiasi zona della bocca: sono in aumento i tumori sul labbro da esposizione a raggi UV.

 

 

                                                                       Michela Molinari    

 

 

Dopo le bufale a proposito di acceleratori di particelle in grado di creare buchi neri e  provocare la fine del mondo, ecco qui che tocca riparlare di disinformazione scientifica. Nell’ultima settimana è stata la volta del latte contaminato alla MELAMINA.

Oltre a dare un’informazione confusa, allarmante (basata solo su cifre dalla dubbia provenienza) e, soprattutto, non illuminante su cosa sia la melamina, i vari quotidiani, telegiornali e agenzie stampa confondono continuamente e gravemente la melaMina (un composto chimico utilizzato per la produzione di materie plastiche) con la melaNina (molecola responsabile del pigmento della nostra pelle e che genera l’abbronzatura). Tutti i quotidiani, con l’eccezione di pochi, hanno riportato che l’additivo incriminato della morte di alcuni bambini cinesi e dell’intossicazione di alcune migliaia, è la melaNina!
Come se la notizia, di per sé, non fosse già abbastanza drammatica, i mass media si mettono anche a fare grave disinformazione.

Perchè la melaMina nel latte?
Il fraudolente utilizzo di questa sostanza, un composto azotato tossico, è dovuto al fatto che uno dei modi per testare la qualità del latte è misurarne la quantità di proteine presenti.
Tale valutazione non si fa “contando” direttamente il numero di proteine, ma valutando la percentuale di composti azotati disciolti nel liquido. Le proteine sono infatti formate da carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto. Ecco così che la melaMina, con la sua alta componente di azoto falsa alcuni controlli meno accurati. Lo scopo è quello di aumentare il guadagno a parità di latte venduto, ma con risultati disastrosi sulla salute umana.

La cosa ancora più sconcertante è come il latte contaminato sia stato denunciato in ritardo per salvare le Olimpiadi! Già nel dicembre 2007 la Sanlu, la principale azienda sul banco degli accusati, aveva ricevuto reclami e notizie sugli effetti dannosi del prodotto. Lo hanno reso noto i media cinesi.
L’azienda ha condotto i primi test in giugno, e ha deciso di informare le autorità già dal 2 agosto. Lo scandalo è però scoppiato oltre un mese dopo: l’11 settembre.

Tra l’altro non è la prima volta che la Cina viene accusata di contaminare alimenti. Nel 2006 era già stata effettuata una segnalazione dalla Food and Drug Administration riguardo alla contaminazione con melamina di materie prime ad alto tenore proteico che hanno comportato la morte di animali come cani e gatti.

Di seguito le notizie delle agenzie di stampa ANSA e AGI, tra le prime a divulgare la notizia strampalata. Per non parlare del successivo disastro creato dal tam tam dei blogger “copia e incolla”…

AGI 23 settembre

ANSA 24 settembre

Francesca Ceradini

Le patologie cardiovascolari costituiscono un terzo di tutte le cause di morte. Ma prevenirle è possibile.

 

 

Diciassette milioni di vite umane: è il tributo che il mondo paga ogni anno alle malattie dell’apparato cardiocircolatorio. Infarto, ictus, che insieme uccidono tredici milioni di persone, e le altre patologie cardiocerebrovascolari costituiscono la prima causa di morte nel mondo, e sono responsabili di un terzo della mortalità globale (dati OMS 2005). Se il trend non si interromperà, si calcola che nel 2015venti milioni di persone moriranno per queste malattie.

Eppure, almeno l’80% di queste morti potrebbero essere evitate solo modificando i principali fattori di rischio cardiovascolare: l’uso di tabacco, la dieta scorretta, l’inattività fisica. Proprio “Conosci il tuo rischio?” è lo slogan della Giornata Mondiale del Cuore 2008, che si svolgerà il 28 settembre. Le attività della Giornata mondiale del cuore, organizzate dalla World Heart Federation, con l’egida dell’Organizzazione mondiale della Sanità, in più di 100 paesi, comprendono controlli gratuiti, incontri scientifici, mostre, lezioni di ginnastica, passeggiate, maratone, concerti.

Intanto, la ricerca va avanti: durante l’ultimo congresso della Società Europea di cardiologia, che si è appena concluso a Monaco, sono stati individuati nuovi parametri che potrebbero misurare il rischio di eventi cardiovascolari maggiori, cioè infarto e ictus. E sono anche stati presentati nuovi farmaci.

 

 

Non solo colesterolo

 

Che il rapporto tra colesterolo LDL e HDL consenta di definire il rischio cardiovascolare è fatto assodato. Ma secondo un nuovo studio, condotto su oltre 27 mila persone e pubblicato su Lancet, questo parametro consentirebbe di individuare solo il 37% del rischio cardiovascolare del soggetto. La ricerca, condotta da Matthew McQueen, dell’Università di Mc Master in Canada, ha invece puntato i riflettori sul rapporto tra la lipoproteina APOß e la APOA1. Questo nuovo test potrebbe essere utilizzato in particolari popolazioni di pazienti.

 

Uno studio del dipartimento di sanità pubblica finlandese, condotto su 22 mila persone, ha dimostrato che alti livelli di trigliceridi nel sangue sono correlati ad un aumento del rischio di infarto, indipendentemente da altri fattori. Un alto livello di trigliceridi è spesso associato a un basso valore di HDL, soprattutto nelle persone in sovrappeso e con una dieta scorretta. In ogni caso, per correggere questi valori, la ricetta non cambia: alimentazione sana e movimento.

 

 

Questione di polso

 

Dieta e attività fisica sono anche il metodo per abbassare le pulsazioni. Lo studio Beautiful, condotto su 11 pazienti con scompenso cardiaco in fase iniziale e pubblicato su Lancet, ha dimostrato che tenere la frequenza cardiaca sotto i 70 battiti al minuto riduce del 36% il rischio di infarto e del 30% quello di un intervento alle coronarie. Il medico, quindi, dovrà ricordarsi di sentire il polso a tutti i suoi pazienti.

 

Cuore in fiamme

 

Altri “indiziati speciali” come markers del rischio cardiovascolare sono alcune sostanze che si liberano nell’infiammazione: l’adiponectina e la proteina C reattiva. La prima è una proteina prodotta dagli adipociti, che cala nel diabete e nell’obesità. Bassi livelli di adiponectina sono associati all’incremento del BMI, del rischio cardiovascolare, dell’incidenza di infarto.

La proteina C reattiva è stata recentemente inclusa dal Centro per il Controllo Malattie di Atlanta e dall’American Heart Association tra i fattori di rischio in aggiunta a quelli classici.

 

Farmaco anti – ictus

 

Un nuovo farmaco antiaritmico che agisce sulla fibrillazione atriale, condizione che interessa mezzo milione di persone solo in Italia e che è una delle principali cause di ictus. Si tratta del dronedarone, testato per quasi 20 anni su 4500 persone, nel corso dello studio Athena. Il dronedarone riduce il rischio di ictus del 34% contro placebo nell’ambito del trattamento standard che prevede la somministrazione di anticoagulanti e antiaggreganti. La fibrillazione atriale viene oggi trattata, oltre che con questi farmaci, con l’ablazione, che spegne gli impulsi incontrollati che confondono il ritmo cardiaco. Se il cuore non batte regolarmente, il sangue tende a ristagnare negli atri, formando coaguli che possono arrivare sino ai vasi cerebrali, bloccandoli.

 

Farmaco pro – HDL

 

Sino ad oggi i farmaci ipocolesterolemizzanti abbassavano il livello di colesterolo totale e/o quello delle LDL. Ora sono allo studio farmaci che dovrebbero alzare il colesterolo buono. Risultati ha dato la niacina (vitamina B3) che però, alle dosi usate, è mal tollerata, ma potrebbe essere somministrata in nuove formulazioni. Lo studio SEACOST (Safety and Efficacy of a combination of Extended Release Niacin and Simvastatin in Patients with Dyslipidemia) ha associato, in 600 pazienti, le statine alla niacina a lento rilascio, rilevando un aumento dopo sei mesi del colesterolo buono superiore a quello dei volontari trattati con la sola statina.

 

L’olio di pesce contro lo scompenso cardiaco

 

Due studi indipendenti, ma condotti insieme, hanno dimostrato l’utilità dell’assunzione di un grammo di olio di pesce nella riduzione la mortalità e l’ospedalizzazione per cause cardiovascolari nei pazienti con scompenso cardiaco. Si tratta del progetto “GISSI HF”, condotto in Italia dall’Associazione Nazionale dei Medici Cardiologi Ospedalieri (AMCO), dall’Istituto Mario Negri, da Consorzio Mario Negri Sud. I risultati, pubblicati con grande risalto su Lancet, accompagnati da un editoriale, sono tanto più sorprendenti perché sinora non si erano trovati farmaci efficaci nello scompenso cardiaco.

Lo studio ha arruolato 7000 pazienti con scompenso cardiaco, e si articolava nella prova di efficacia di due farmaci: gli acidi grassi polinsaturi (n-3 PUFA) e la rosuvastatina.

Nel gruppo trattato con una capsula al giorno di  n-3 PUFA, il numero delle morti è stato di 955 (27%), contro 1014 (29%) del gruppo placebo. Ciò significa una riduzione del 9% del rischio relativo. Le ospedalizzazioni sono state 1981 (57%) nel gruppo n-3 PUFA contro 2053 (59%) nel gruppo placebo, il che corrisponde ad una riduzione del rischio relativo dell’8%. Inoltre, nel gruppo che assumeva l’olio di pesce si è verificata una riduzione del 28% dell’ospedalizzazione per aritmie. Al contrario, la rosuvastatina non si è rivelata efficace nei pazienti con scompenso cardiaco.

 

                                                                                                                      Michela Molinari  

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